lunedì 30 maggio 2016

Savatage - "Gutter Ballet" - 1989

E' un mistero ed un peccato il fatto che una band come quella fondata dai fratelli Oliva (Jon - voce e tastiere e Criss - chitarra) non abbia ricevuto l'attenzione che meritava.
Formatosi a cavallo fra gli anni '70 e '80 nella soleggiata Florida e dopo aver pubblicato album dallo scarso riscontro commerciale e dalle coordinate stilistiche ondivaghe, il quintetto statunitense dà alle stampe questo "Gutter Ballet".
Sesto disco in studio che di fatto ne decreta l'uscita dal circuito underground e che, complice una svolta stilistica verso lidi progressive e dalle sfumature operistiche, ripaga i Nostri degli sforzi precedentemente profusi.
Che disco è questo "Balletto di strada"?

Diciamo che non si tratta di un concept nel senso stretto del termine, ma piuttosto una raccolta di brani incentrati su tematiche molto affini.
La guerra è trattata (un po' manieristicamente) nell'opener "Of rage and war", la paura del prossimo nella randagia e "priestiana" "Hounds" e la necessità di evadere da ogni cosa in "Mentally Yours" e "Thorazine Shuffle".

Escludendo i due antitetici strumentali "Temptation revelation" (pomposa) e "Silk and steel" (acustica e non troppo dissimile da "Clap" degli Yes...), tutto gira attorno ad un sound hard&heavy di stampo vagamente neoclassico.
La voce di Jon è particolare ed espressiva, la sezione ritmica non ha un attimo di cedimento e la chitarra di Criss è perennemente sugli scudi, sia che agiti la sciabola, sia che agisca in punta di fioretto...

In fondo, però, "Gutter ballet" ci getta sul viso come acqua gelida la SOLITUDINE. Lo fa nella splendida power ballad "Summer's rain" e tra le pieghe di una titletrack mutevole e notturna.
E lo fa, signore e signori, in "When the crowds are gone" con l'ausilio delle seguenti parole:

"Quando il pubblico se n'è andato e sono tutto solo
suono una canzone d'addio, adesso che le luci sono spente.
Accendetele ancora, ancora una volta per me, amici miei.
Accendetele ancora.
Non ho mai voluto sapere, non ho mai voluto vedere
ho voluto sprecare il mio tempo, finché il tempo non mi ha consumato.
Non ho mai voluto andarmene, ho sempre voluto restare,
perché la persona che sono è una parte che recito..."


La solitudine dell'artista, del buffone, di chi è costretto ad intrattenere per poi essere dimenticato poco dopo.
Un'emozione duratura in cambio di un applauso momentaneo, fugace, forse anche forzato.

Così è l'arte.
Così è la vita.