martedì 31 maggio 2016

Opeth - "Morningrise" - 1996

Se fosse una malattia sarebbe un caso conclamato di bipolarismo.
Se fosse un oggetto sarebbe il più oscuro dei caleidoscopi.
Se fosse una donna sarebbe talmente distante da ciò che conosciamo da sgretolare la nostra concezione di femminilità.
Per nostro sommo piacere "Morningrise" E' SEMPLICEMENTE il secondo album degli Opeth.
Descriverlo in maniera esaustiva e comprensibile è un'impresa folle, che esula dalla condizione di essere umano: d'altronde come è possibile catturare la corrente che alimenta un fiume nero come l'inchiostro?

Quando ogni singola molecola di fluido si dibatte nella spasmodica ricerca del proprio spazio vitale, trasformandosi senza soluzione di continuità, mentre intorno tutto appare rallentato e distorto. Come si può?
Quali equilibri si celano sotto l'apparentemente placida superficie dell'acqua?

Suggestive congetture o poco più; quesiti profondi per insondabili verità.
L'unica certezza inconfutabile che abbiamo è insita in ogni minuto di questa meraviglia trasposta in musica.

E non esagero quando parlo di minuti, credetemi. E' volgare appellarsi alle statistiche dinanzi a tanta BELLEZZA, ma è doveroso per comprenderne la grandezza d'insieme. Le coordinate sulle quali gli svedesi si muovono sono quelle di un Death Metal decadente, gotico nelle intenzioni e progressivo nei fatti.
Raro, o quantomeno improbabile in quasi 70 minuti, imbattersi in più di 120 secondi consecutivi in grado di definire per intero un brano.
Fatta eccezione per la conclusiva e vagamente psichedelica "To bid you farewell", dove basso e chitarra acustica paiono dialogare in un linguaggio congeniale alla loro espressività, ogni traccia presenta connotazioni e caratteristiche comuni.

Armonizzazioni da brivido, doppia cassa, arpeggi di chitarra acustica e classica, voce growl in contrapposizione al timbro clean, imprevedibili sfuriate intervallate da aperture improvvise e di una calma innaturale.
Per tacere poi di una tecnica strumentale sbalorditiva.

Gli apici in un disco di tale portata si sprecano, me è doveroso e utile evidenziare l'epica "The night and the silent water ", dotata di una vena folk assolutamente evocativa e, a mio opinabile parere la vetta assoluta raggiunta in questo contesto.
Il superbo apporto della sezione ritmica è tangibile nell'opener "Advent", fra corde stoppate e ripartenze ed in "Nectar" dove ci imbattiamo nel primo assolo (di chiara scuola Classic Metal) dopo quasi mezz'ora di musica.

I 20 minuti abbondanti di "Black rose immortal" sono tortuosi e, in un saliscendi di atmosfere contrastanti, basso e batteria dai lineamenti decisamente progressive e riff malleabili, abbiamo anche il privilegio di ascoltare il miglior solo di chitarra dell'album.



"La devozione elude
E nella tristezza mi muovo sgraziatamente
Nelle mie ceneri attendo senza un'anima
Lei pianse e sospirò: "Lo so…"



"Camminammo nella notte.
Devo dirti addio?
Perché non riesci a vedere che ci provo
Quando ogni lacrima versata
È per te?"

Che dire?

"Non c'è più niente da fare per te
Danzando nel vuoto
Noi siamo lì..."