Di povertà d'animo e sordido squallore è grondante l'accumulo di corpi che definiamo SOCIETA'. Moribonde carcasse in perpetuo moto verso un autocompiacimento che è fonte e ragione di vita.
Poi, una sera come tante, ti imbatti in "()" terzo (capo)lavoro dei Sigur Rós e, lì per lì, decidi che forse non è tutto un enorme castello di carte.
A tre anni di distanza dall'abbacinante penombra (va bene, lo ammetto, oggi sono in vena di ossimori...) di "Ágætis Byrjun", ecco schiudersi questo "The Brackets Album".
Le parentesi che, per l'appunto, campeggiano sull'enigmatica cover, a stento racchiudono 70 minuti abbondanti di musica che sono come lucciole; ingenuamente credi di averle catturate, ma quando apri le mani per osservarne la fluorescenza...sono sparite.
L'hopelandic o vonlenka è l'idioma inventato dal significato intrinseco che, seppur in maniera poco empirica, è addirittura intellegibile.
Chiunque abbia mai parlato con mio padre sa a cosa mi riferisco. Ma questa è un'altra storia...
Chiunque abbia mai parlato con mio padre sa a cosa mi riferisco. Ma questa è un'altra storia...
Tornando alla musica, in tutta onestà, evito di fare un netto distinguo fra le otto tracce che la band ci propone. Tanto varrebbe soffiare su una molecola d'acqua ed avere la presunzione di ricavarne due atomi di Idrogeno e uno d'Ossigeno.
"Ho viaggiato attraverso la luce
Non ho paura
In questo lago d'anime
Perdo ogni paura..."
In questo lago d'anime
Perdo ogni paura..."
Spalle al muro non posso esimermi dal menzionare l'opener "Vaka [La figlia di Orri]" in cui la voce-strumento di Jón Þór "Jónsi" Birgisson ti colpisce epidermicamente e per una vita non vorresti sentire altro.
Discorso non dissimile a quello che concerne una "Samskeyti" sonicamente intima e trionfale, in cui il pianoforte della guest star Björk è inestimabile valore aggiunto ad una composizione che è come un graduale risveglio dei sensi; attaccamento o legame sono alcuni dei suoi significati e al primo ascolto ti rendi conto di non poterne più fare a meno.
"Álafoss" inaugura la seconda parte del platter alla maniera dei Radiohead più ispirati e dilatati, fra rullanti spazzolati e organo fumoso, prima che un burrascoso epilogo ci metta davanti all'evidente importanza della dinamica nella musica.
Ritornelli appiccicosi e ganci commerciali non hanno modo di scalfire la centralità di un cambio di passo o di una successione di accordi azzeccata e "Dauðalagið [La canzone della morte]" sembra piazzata in settima posizione proprio per ricordarcelo. Amen.
"Popplagið [La canzone pop]" è rumorismo al servizio di un rock mutante, mutevole e dalle coordinate molto britanniche. Muse, The Verve e i soliti Yorke&Co vengono chiaramente evocati nella lunga suite di chiusura, ma nei suoi 12 intensi minuti l'effige Sigur Rós è scolpita su ghiacci perenni.
Nel frattempo è trascorsa più di un'ora, ma il disco è ripartito...pazienza, mi toccherà ascoltarlo un'altra volta...