Le nostre bisnonne si sarebbero private della propria anima in cambio di due braccia in più. Lavare, stirare, cucinare, provvedere a figli e famiglie sempre numerose. Insomma, una faticaccia.
Anche alla donna di oggi la prospettiva di prendere le sembianze di una moderna Dea Kalì non farebbe schifo: quattro arti superiori gli permetterebbero di guidare l'auto a cazzo, mentre risucchia una meritata sigaretta, si trucca come un clown, prenota la lezione di pilates e racconta all'amica al telefono del suo nuovo tatuaggio con nome del fidanzato che ha cornificato la sera prima.
Wow, it's really a "Brave New World"!!!
Reduci da due prove in studio che hanno poco convinto un po' tutti, gli Iron Maiden decidono di tornare sui propri passi e di rinverdire i fasti del glorioso passato.
Dopo due album col mediocre Blaze Bayley, dietro al microfono torna a spadroneggiare il figliol prodigo Bruce Dickinson, la cui carriera solista si è rivelata un vero fiasco.
Il suo non è l'unico ritorno eccellente, perché il rientrante Adrian Smith e la sua chitarra vanno a completare un sestetto che ora si avvale dell'apporto di ben tre asce!
Dodicesimo full-lenght in una discografia composta da almeno sei classici assoluti dell'Heavy Metal e, forse, ultimo disco della band inglese da considerarsi valido, "Brave New World" si presenta col sorriso smagliante ed un prorompente biglietto da visita che risponde al nome di "The Wicker Man".
I tempi in cui "Where Eagles Dare","Aces High" e "Invaders" avevano la missione (peraltro pienamente compiuta) di rompere il ghiaccio paiono lontani ed in effetti quindici e più anni non sono poca cosa.
La song però non è affatto malvagia: il riff portante è tanto semplice quanto efficace e perfino il coro finale non risulta stucchevole.
Un buon modo per farsi conoscere dalle nuove generazioni e non deludere troppo lo zoccolo duro dei fan ultratrentenni.
Con "Ghost of navigator" e la titletrack però insorgono i primi problemi: entrambe scollinano i sei minuti di durata, sinceramente troppi per due brani che non hanno granché da offrire e risultano annacquati.
Ecco; la prolissità ed una goffa vena progressive gravano su alcuni passaggi, rendendoli macchinosi e spesso noiosi.
E' così che pezzi come "Dream of mirrors", "The Nomad" e "The thin line between love & hate" , nei loro 27 minuti complessivi, ci offrono sì sprazzi di indimenticata classe, ma diluiti in soluzioni ridondanti, schemi troppo lineari e, soprattutto, privi di qualsivoglia direzione. Insomma, dai, di "Rime Of Ancient Marine" ce ne sarà sempre e solo una!
Le cose migliori, infatti, Harris e soci le tirano fuori quando suonano più concisi, come nelle ispirate "The mercenary" e "The Fallen Angel".
Non si grida al miracolo e Bruce a tratti pare sfiancato, ma è sempre una spanna sopra al bollito Bayley.
Il resto del platter è accademia intervallata da un entusiasmo finalmente ritrovato.
Negli anni a seguire faranno decisamente peggio, per cui consiglio di dare un ascolto a questo disco che a conti fatti non è malaccio.
Poi però non mettete su "The Number Of The Beast", perché così non vale...