martedì 4 ottobre 2016

Okkervil River - "Black Sheep Boy" - 2005


"E penso di sapere cosa sia l'amaro sgomento
di un innamorato che le porta

freschi bouquet ogni giorno
per poi essere rifiutato per un ricordo di Lei

di una qualche canaglia
che un giorno, anni prima,

le aveva dato una singola rosa..." 
(da "A Stone")

                                                       
Esiste qualcosa di più puro di una trionfale sconfitta, di una nobile resa?
Quel sentimento che è compiacimento e struggevolezza, bramosia nei confronti di una luce che si affiochisce ad ogni passo mosso verso Lei?
Da Austin, Texas, Will Sheff e la sua crew ammantano di disincanto e sì, un pizzico di delusione, amori perduti nel tempo, storie quotidiane ed ineluttabili autoanalisi.
Come un foulard di viscosa nera gettato su una lampada ad olio.

L'intro, che è anche titletrack e cover di Tim Hardin, funge egregiamente da "legenda" o filo conduttore di un album che scorge nell'inquietudine declamatoria di "For real" un ottimo viatico alla propria presentazione. Scosse elettriche su una base abbagliante e parimenti sonnolenta ci regalano una visione distorta e parziale delle reali caratteristiche di "Black Sheep Boy".

"Dimostrami che ci hai davvero provato.
E non voglio sentirmi dire:
"Non dovrebbe essere così",
perché per me, COSI', va benissimo..."


E' difatti intrappolata da qualche parte fra il Nick Drake di Pink Moon ed i cigolii degli Sparklehorse la fragilissima, bisognosa e sospesa "In a radio Song", e hai quasi timore che il cristallo di cui è composta vada in mille frantumi per via del giro di basso e delle invocazioni di giustizia sommaria di una "Black" che ti contagia al primo ascolto.

Il folk sprezzante e colmo di rimpianto di "Get Big" è propedeutico all'assimilazione di 9 minuti per i quali le semplici ed effimere parole risultano quasi offensive.

Deliziosa fiaba moderna, punteggiata da trombe, marimba e arpeggi in delay, "A King and a Queen" fa letteralmente il paio con una "A Stone" in cui pare d'ascoltare i The Black Heart Procession attaccati di forza ad una flebo di antidepressivi, fino a che un epilogo amaro e "perdente" non riporta le cose al loro posto.

Il godibile e nervoso Indie-Rock di "The latest thoughs" ci riporta alla realtà, mentre lo Stomp-Country di frontiera di "Song of our So-Called friend" ci rammenta quanto sia straziante l'impossibilità di essere amato, quando non si vorrebbe nient'altro.

Sgranata, fumosa, fra contrappunti di piano e ottoni che consolano corde vocali rotte da un pianto recente e da uno scotch di troppo, "So come back, I am waiting" precede la disperata ballad finale "A glow", allucinata e spaccacuore quel tanto che basta ad estirparci una lacrima, un sospiro e una moltitudine di pensieri discordanti.

Si può chiedere, in tutta franchezza, di più ad un semplice disco???

"Emani un bagliore.
Arrampicati fra le mie braccia
con i tuoi vestiti insanguinati.
Entrate nella tana...emanate un bagliore."